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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

Il piacere di abbattere il Muro

di Antonio Martino

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12 agosto 2009

Il 1989 è stato definito da Ed Feulner, presidente della Heritage Foundation, come «l'anno più straordinario in un decennio eccezionale». Concordo con la sua valutazione e, per chiarire il mio punto di vista, farei un passo indietro. Nel 1980 mi recai a Stanford per tenere una relazione alla riunione generale della Mont Pelerin Society sul modo di calcolare l'entità dell'economia sommersa attraverso l'uso degli aggregati monetari. Durante quel convegno, Arthur Seldon, co-fondatore dell'Institute for Economic Affairs di Londra, ribadì l'opinione già espressa in una lettera al Times del 6 agosto, che: «La Cina diventerà capitalista. La Russia sovietica non sopravvivrà alla fine del secolo. Il Partito laburista per come lo conosciamo non governerà più. Il socialismo è un dettaglio senza importanza».

La tesi di Seldon venne considerata manifestazione tipica di umorismo inglese e nessuno la prese sul serio. In realtà, in meno di dieci anni la sua profezia dimostrò di essere corretta: l'elezione della Thatcher nel 1979 e le sue politiche hanno profondamente cambiato la Gran Bretagna e dopo di lei il partito laburista non è più stato lo stesso. Sarebbe azzardato considerare Tony Blair e Neil Kinnock membri dello stesso partito, almeno a giudicare dalle idee che hanno professato. In Cina, specie al sud e lungo la costa orientale, si è avviato un processo che definirei di «capitalismo serpeggiante». Naturalmente, non sappiamo dove questo andrà a parare, ma nel 1980 sostenere che la Cina sarebbe diventata capitalista appariva a dir poco azzardato, oggi non sorprenderebbe nessuno.

Quanto alla Russia sovietica, l'elezione a novembre di quell'anno di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti pose le premesse per la sua scomparsa. Quando, nella fase iniziale della riforma fiscale, la crescita della spesa sociale voluta dalla maggioranza democratica superava l'aumento delle entrate, con conseguente aumento del deficit federale, Reagan avrebbe avuto a disposizione un rimedio facile ed efficace: tagliare le spese militari. Qualsiasi politicante miope e attento alle proprie convenienze di parte non avrebbe esitato un istante e avrebbe falcidiato le spese per la Difesa, rimediando all'aumento del disavanzo e magari spacciandosi per pacifista. Reagan si guardò bene dal farlo, anzi aumentò sensibilmente le spese militari, impegnandosi fra l'altro nel programma Sdi (Strategic Defense Initiative, iniziativa di difesa strategica) bollato sardonicamente dai soliti incolti come «guerre stellari». Furono i pochi miliardi di dollari investititi nella Sdi il migliore investimento di politica estera e di difesa della storia degli Usa: grazie a essi si avviò a conclusione il processo che portò l'Urss all'implosione e alla scomparsa.

E vengo al 1989. Il 10 novembre, avendo appreso le straordinarie notizie della sera prima, telefonai al mio amico Herbert Giersch, noto economista monetario dell'Università di Kiel, per congratularmi con lui e sentire la sua opinione. Il suo commento, a prima vista sorprendente, fu: «Ho paura delle mie emozioni!». Riflettendoci compresi cosa intendesse dire, cosa provasse per la fine di un lunghissimo incubo, la divisione della sua patria sottolineata da quel mostruoso simbolo di oppressione e di crudeltà.
Anch'io provai in quei giorni un'emozione intensa; avrei tanto voluto esserci a Berlino quel 9 novembre 1989 a fare a pezzi assieme ai tedeschi quel monumento alla ferocia e alla stupidità del comunismo sovietico. Avevo avuto modo di vederlo anni prima quel maledetto muro da un osservatorio molto speciale quando, in concomitanza con la riunione della Mont Pelerin Society, venimmo invitati a cena da Axel Springer, il magnate dell'editoria che aveva trasferito la sede centrale del suo gruppo da Amburgo a Berlino, in un grattacielo costruito a ridosso del muro. Fu così che lo vidi la prima volta dall'alto dell'ultimo piano del grattacielo Springer e compresi il perché di quel trasferimento.

La fortuna è stata molto generosa nei miei riguardi: ho potuto assistere all'epilogo dell'intera vicenda quando partecipai al vertice dei ministri della Difesa della Nato a Varsavia, dove si perfezionò l'ingresso della Polonia nel Patto atlantico. La cerimonia si tenne nella stessa sala in cui era nato il Patto di Varsavia e un collega dell'Europa orientale mi sussurrò all'orecchio: «Non ci siamo limitati a distruggere il comunismo, stiamo anche ballando sulla sua tomba!».
I più giovani avranno difficoltà a comprendere il significato di quello straordinario evento: il crollo del muro simboleggia la fine di un interminabile incubo che ha segnato la storia di quasi tutto il XX secolo. Ricordo ancora le campagne elettorali del dopoguerra, segnate dalla contrapposizione fra la Democrazia cristiana e i partiti di centro da un lato e il Partito comunista dall'altro. Continuo a non sapermi spiegare come un mito malevolo e malvagio abbia potuto fare presa su tanta gente che pure aveva di fronte l'evidenza indiscutibile delle sue nefaste conseguenze e dei suoi orrori. Né mi spiego come i comunisti italiani abbiano potuto circondarsi di un'aria di rispettabilità quando addirittura non pretendere di possedere una sorta di superiorità morale.

  CONTINUA ...»

12 agosto 2009
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